Svevo liberato

I

Da quando Svevo è andato in pensione, più di quattro anni fa, le storie di Morelle Rouge si sono fermate.

Di Svevo raccontava l’ultimo capitolo, che allora nemmeno l’autrice immaginava potesse diventare l’ultimo. Potrebbe, quello, essere l’ultima pagina di un’opera incompiuta, o il colpo di tosse di chi ha parole incastrate in gola, e troppo da lamentarsi per compiere la benedetta azione di portare a termine un impegno, uno.

Potrebbe essere, quella di Svevo che va in pensione, l’ultima voce di un inventario, il post di un blog che a un certo punto se ne va a puttane, che è il punto in cui i blog più modesti e incostanti di altri se ne vanno a puttane.

Non vi sarebbe, in qualsiasi caso, alcun danno. Le storie finiscono, non ci si può fare nulla.

II

Papà è andato in pensione più di quattro anni fa e io da allora non scritto più niente. Nemmeno una parola, di quelle che volevo scrivere. I miei amici scrittori di un tempo fanno quello che fanno gli scrittori: hanno continuato a scrivere. Io ho continuato a leggere.

Una sera di due anni fa ero a cena da una mia amica, la stessa che allora mi regalò “Il blocco dello scrittore”. Dopo qualche bicchiere di vino e una canna ben assestata, lei ha scelto una fra le molte, imprevedibili, azioni che potrebbe compiere chi si è fatto qualche bicchiere di vino e una canna: ha preso le storie di Morelle Rouge e ha letto ad alta voce “Svevo va in pensione“. Dopo, ha letto anche “La bella principianza” e forse qualcos’altro che non mi ricordo più.

Eravamo io, lei e Gus. Avevamo mangiato un piatto di spaghetti con una salsa precotta a base di radicchio e non so cosa, ma buonissima, e tanti grissini col salame. A bere vino loro avevano iniziato prima di me, mentre preparavano la cena. Io, da quando ho un ufficio, arrivo tardi la sera, sempre, a qualunque cena, anche a casa mia. Da quando ho un ufficio, arrivo tardi un po’ su tutto. Ma manca poco, ancora qualche mese, e poi me li levo di torno, questo ufficio, questo lavoro, questa gente malsana e queste frasi fatte che mi hanno tolto la grazia del pensiero.

La prima cosa che ho pensato, mentre ascoltavo la mia amica che leggeva le mie storie, è stata: “Ma come cazzo fa a leggere con tutto quello che si è calata?”. In effetti, pur incespicando qui e là in qualche passaggio, – fatto che perdonerei anche a un lettore sobrio alle prese con certi miei sbocchi di sintassi nevrotica, – lei, l’amica mia, leggeva le parole mie dando corpo alle battute, come se in passato le avesse imparate a memoria a seguito di uno studio accurato, da attrice che conosce la parte e può recitarla anche con mezza salute. Riusciva pure a fumare e tossire nelle pause, a scrollare la cenere nel posto giusto; a tratti l’attenzione oculare virava verso il posacenere mentre seguitava la narrazione con la voce.

Gus non lo so che faceva, però era lì.

La seconda cosa che ho pensato, mentre Enrica leggeva e fumava, e io ascoltavo e fumavo, è stata: “Oh, comunque scrivevo bene”. Me lo sono concesso bello grosso, questo pensiero, perché alla fine pure la mia sobrietà di quella sera era discutibile. Che goduria, lodarsi in silenzio tra fumi e vapori di una serata familiare, tanto non lo saprà nessuno che mi sono fatta i complimenti da sola.

III

Poi non ho pensato più a niente. Ho ascoltato Enrica che leggeva i miei racconti.

Quando muoio, se muoio un po’ presto, ma anche più tardi, qualcuno – qualcuno che li abbia letti e abbia passato un bel tempo leggendoli, – me li metta da parte e ne abbia qualche cura.

L’Editore mi disse: che belli, li ho trovati e li ho letti. Ma ci voleva un romanzo. Una raccolta di racconti, scritti da un’autrice esordiente e nati per essere letti in un blog, sono in tutto tre difetti (forse quattro, pensai io allora). Messi così, no, non funzionano, ché già i racconti non hanno buona sorte in Italia. L’opera prima, poi, non può essere una raccolta di racconti tirati fuori dai frammenti di un blog. Non è cosa.

Io dico che anche postuma va bene.

Svevo, almeno lui, non lo vedete? Sta in piedi da solo sulla pagina. Tre bestemmie ed è romanzo, mio padre. Non perché è mio padre, si capisce: che c’entra la biologia con la narrazione? La scrittura tutto divora, succhia il sangue di chiunque e i padri, poi, i padri li fa a pezzi!

Perché è un personaggio, Svevo, e fa quello che gli pare. Da solo, basta a fare una storia. Mio padre invece no, da quando è andato in pensione non gli trovo addosso uno straccio di storia da raccontare.

Perciò, io credo, Svevo è libero e, per suo conto, compiuto.

Mio padre viene a trovarmi quasi tutti i giorni nella casa dove abito oggi, al paese. Sono tornata al paese più di cinque anni fa, e sono rimasta. Papà è in pensione, mia mamma ci va a giugno. Forse lei, Maria, la donna che ha sopportato tutto, anche me, scioglierà i nodi.

IV

Questa è una domenica mattina di febbraio. C’è il sole ed è l’anno 2019. Vivo al paese dal 25 ottobre 2013 e in questa mia casa da una decina di mesi. Mi torna una voglia, forse mezza.

Svevo si rifarà vivo. Verrà a farmi visita senza appuntamento, come fa mio padre quando mi porta le medicine, o il minestrone ancora caldo che ha fatto Maria. Suona al portone, sotto; io dal mio soggiorno lo vedo prima che lui mi veda, nel videocitofono che svela le facce e le intenzioni. Ha il berretto calato sulla testa calva. Ciao, mi dice, passavo di qua. Io apro la porta e lo aspetto sul pianerottolo mentre sale le scale. Mi piace vederlo spuntare all’ultima rampa, con la luce del giorno che gli arriva alle spalle, dal finestrone del palazzo. È un profilo scuro, solo il passo gli riconosco.

Sono sicura che Svevo si ricorda di me. Sarà suo il profilo scuro contro il fascio di luce, a giganteggiare nel pulviscolo di questi anni. Io gli dirò: maledetto, dove sei stato. Lui nemmeno mi risponderà, farà un gesto, uno dei suoi, come per dire: non hai mai capito niente, tu vivi sulla luna.

Il blocco (Svevo va in pensione)

Due amici mi hanno regalato il blocco dello scrittore. Intendo, me lo hanno regalato insieme, quindi ho un blocco solo. Questo qui, al contrario di altri che ho, è fatto di carta. Una bella carta, fra l’altro, che ha un buon odore. Sulla copertina c’è scritto proprio così, “Il blocco dello scrittore”; i miei amici mi fanno sempre regali pensati su misura per l’occasione, li chiamano “regali parlanti”. Questo regalo parlante lo tengo sulla scrivania, quella bianca, ché così il giallo paglierino della carta risalta di più sulla superficie, ci sta proprio bene. Ogni tanto lo apro e sfoglio le pagine numerate. Mi piace molto che siano già numerate.

Volevo scrivere di Svevo che è andato in pensione. È tanto che non scrivo di Svevo. È tanto che non scrivi di nulla e di nessuno, mi hanno fatto notare gli amici che mi hanno regalato il blocco. È vero, dico io, però non scrivere di Svevo, questa sì che è una mancanza da parte mia, soprattutto da quando lui è andato in pensione, il 16 dicembre 2014. Svevo ama la precisione, dunque bisogna precisare che il 16 dicembre 2014 non è andato in pensione, è andato in ferie, le sue ultime ferie. “Sulla carta” – Svevo dice sempre così, perché lui ai fatti sulla carta ci tiene, – andrà in pensione dal 1° gennaio 2015. Sta di fatto che da due settimane ha il tempo libero di un pensionato, e non scrivere di questo mi pare una grave inadempienza. Dico, che diamine, almeno usare questo bel blocco per prendere uno straccio di appunto!

Ci provo un attimo.

Da quando è andato in pensione, Svevo trapana muri. È sempre stata la sua passione. Ora, finalmente, può dedicarsi con tutte le sue energie a ciò che gli procura piacere. All’occorrenza, anche, imbianca pareti, spacca legna, ramazza giardini, stura lavandini, sega travi, vernicia porte, monta mobili nuovi e ne smonta di vecchi (li mette da parte, possono sempre servire). Si offre volontario per qualunque lavoro di riparazione domestica; qualche tempo fa si è candidato pure per riverniciare non so quale trabiccolo a casa dei miei amici, gli stessi che mi hanno regalato il blocco dello scrittore.

Una volta Svevo era fonte di innumerevoli materiali narrativi.

Di un uomo che va in pensione, c’è tanto da raccontare, soprattutto se è tuo padre. Volevo scrivere un racconto e intitolarlo “Il crivellatore”. Che so, un racconto alla John Cheever. Aveva fatto una scoperta, aveva dato un contributo alla geografia moderna. Potrei cominciare così, con una citazione. Del resto, da quando è andato in pensione, a suo modo Svevo dà un contributo alla geografia moderna ogni giorno.

Rileggo vecchie pagine, alla ricerca di parole da spremere. Osservo Svevo, mio padre, mentre fa avanti e indietro. In questi giorni compie frequenti pellegrinaggi a Brico. Si sta appassionando a tasselli, ancoranti e sistemi di fissaggio per l’edilizia. Ha molto da fare, e bestemmia la madonna quando sbaglia l’acquisto delle viti, si rimette addosso il cappotto e il cappello ed esce di nuovo. Quando non sappiamo dov’è e non risponde al telefono, non ci preoccupiamo, siamo sicuri di incontrarlo prima o poi sulla statale 16 che porta a Brico.

Una volta le pagine su Svevo scorrevano con facilità. Qualcuno le leggeva pure.

La mattina presto lo trovo già in cucina. Gli chiedo: “Papà, che fai di bello oggi?”. Lui mi risponde: “Me lo chiedi ogni mattina, quasi quasi me ne torno a lavorare”. Si veste con cura e va a fare la spesa, torna a casa con buste cariche di cibo e ne sistema ogni contenuto al suo posto. Lascia fuori il lievito, la caciotta e lo yogurt, poi dice spiccio a mia madre “Tò, ecco il lievito”, a mio fratello “Tò, ecco la caciotta”, a me “Tò, ecco lo yogurt”, e rivolto a tutti e tre aggiunge: “Venticinque minuti di fila alla cassa”. A volte sono di più, dipende dal giorno.
Ha comprato una lavagnetta nuova e l’ha appesa al posto della vecchia in cucina, ci scrive sopra le cose da fare, con la sua grafia precisa. Durante il giorno le cancella via via che i compiti vengono portati a termine, la sera prima di andare a letto ci scrive quelle del giorno dopo. Adesso c’è scritto: “Omeprazen 20”, che è per mia madre, “panettone senza canditi”, che è per mio fratello, “cestino più grande”, che è per il cane, “Mauro”, che non so chi sia. Ieri sera, per fare una prova, ci ho scritto io “vestito sarta ore 10”, che è per me, e alle 11 era stato cancellato.

Da quando è andato in pensione, Svevo non mi parla.

Il blocco ha duecentoquindici pagine. A pagina 25 c’è scritto un consiglio (credo che sia un consiglio, per scrittori in erba): “Non spiegare, mostra”.

Bridge Over Troubled Water

I.
Si chiama gefirofobia, ti è capitata in sorte. Significa che hai paura dei ponti. Di attraversarli, tieni a precisare con chi semplifica e riduce. Di attraversarli, sì: se non devi attraversarli tu, i ponti stanno benissimo dove stanno. Se ti ci ritrovi sopra, però, ci vuole un attimo per ammollarti dentro certi sudori ghiacciati che solo un gefirofobico come te può immaginare. Ti prende qualcosa tra lo sterno e lo stomaco, come una randellata, e pensi che stai per morire; sei sicuro che stai per morire. Ti capita in macchina, ma solo se la guidi tu, in bicicletta, o anche a piedi. In autobus no, non ti capita, ma ti capiterebbe di sicuro se facessi l’autista, lavoro che infatti non faresti mai e al quale preferiresti la tua attuale disoccupazione. Quei ponticelli di poco conto alla periferia di Roma, dove sei cresciuto, sono gli unici che non temi. Quelli li attraverso da quand’ero pupo, – dici – è sempre andato tutto bene, ma con gli altri, cristo, con gli altri è una tragedia. […]

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L’Inquieto, numero 03/Luglio 2014, pp. 8-27
illustrazioni di Sara Flori

[Grazie a Martin Hofer, L’Inquieto]

La bella principianza

Scavalcami.
Ti suggeriva, ti invitava, ti chiedeva? Sulla pista da ballo la sua gamba destra, inattesa, sbarrava il passo ancora incerto del tuo piede sinistro, mentre dentro a un bisbiglio lui ti diceva: scavalcami. Lo scavalcasti e, mentre lo facevi, il corpo memorizzava un’informazione nuova che non avresti più dovuto chiedere in seguito. Presto avresti imparato che, in quella sera da principiante, avevi messo in musica la tua prima parada. Ti pareva di avvertire una specie di nostalgia preventiva, la rivelazione del momento in cui non saresti stata più una principiante. Bella, la principianza. Il diritto indiscusso all’errore, lo spazio franco dell’azione sgravata dalla responsabilità dell’esperienza, il privilegio della giovinezza impreparata: la principianza legittimava nuovi debutti di vita.
Questo fu per te il tango argentino.

Molto tempo prima – quanti anni sono? – al tuo imene fu bisbigliato: cristo santo, sei stretto come una griglia! (ti venne in mente una rete di filo spinato, o forse la graticola del barbecue). Le maglie serrate della griglia vennero allentate con ostinazione maldestra di ragazzo. Sul cotone bianco della tua adolescenza, piccole chiazze come di arancia rossa. Non fece né male né bene, pensasti: tutto qui? Così le mani, così la bocca: tutto qui? I mesi successivi li passasti a chiederti se fosse possibile essere ricucita, tornare alla principianza per ricreare l’esordio, riformarlo. No, non si poteva. Si poteva solo avanzare. […]

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Agenzia Letteraria Vicolo Cannery, 13/06/2014

(come sempre, grazie a Tommaso Giagni, che scioglie i miei dubbi e me ne annoda altri)

Roma, diavolo santo. Appunti per una serenata a dispetto

Io, quando ti vedo, incrocio per strada un amore finito. Vorrei sapere, non vorrei sapere; ti vengo incontro, faccio finta di niente. Mezza bocca sorride (un ricordo mi scola sempre dall’angolo destro), mezza me la spaccano gli incisivi.
Quando arrivo, puzzo di autobus. Durante il viaggio cerco sempre di non posare la testa sul cuscino, odora di capelli sporchi degli altri. Lungo la A24 mi addormento con la fronte schiacciata sul finestrino grasso di lordura. Così, quando arrivo da te, sono già infetta.

Faccio sempre così: una sigaretta, un caffè e un dolce alla stazione, un’altra sigaretta, due giornali e un giornaliero in edicola, ti fiuto mentre vado alla fermata della metro B. Tiburtina, cinque inverni di arrivi e partenze, di giorni sfigurati, ore sformate. Treno per Laurentina in arrivo tra due minuti, aspetto – una volta mi sono seduta ad aspettare sul piscio di qualcuno, me ne sono accorta alla fermata Policlinico. Ti ho aspettato ovunque, a tutte le ore. Sui tram, soprattutto (il 5, il 14), e mentre ti aspettavo mi stavi già di fronte, di qua, di là, alle spalle. Io, invece, cercavo la tua faccia bella.

Il sabato mattina, al mercato rionale davanti a Villa Gordiani, compravo l’orata, le patate, la frutta fresca. Studiavo la tua lingua e provavo a mettermela in bocca: «Aò, che me sta’ a cojonà?».
La sera, a Trastevere, andavo ad ascoltare quei tre musicisti che mi piacevano tanto. Cantavano le storie tue, raccontavano che nell’amore te po ddì bbene o te po ddì mmale (provavo a scriverlo, ma non era la lingua mia). A Roma s’è sempre cantato, sia ner primo che ner secondo caso. Certo, quanno tutto va bbene, vai sotto ‘e finestre de casa sua e je canti ‘na bbella serenata strappacore. Se te dice male, vai sempre sotto ‘e finestre de casa sua, ma je canti n’artro ggenere de serenata, che è la cosiddetta serenata a dispetto:

… si ddormi e ssogni, diavolo santo,
che nun te pozzi più risvejà.
Ma si stai svejo mentre te canto,
fa’ presto affàcciate, nun t’affaccià
cor paraparapò parapò parapò parapà.
E scapicòllate pe scegne ggiù,
fa’ presto affàcciate, nun venì ppiù,
si vvoi che canto, te fo cuccù
si (?), canto de ppiù.

Non capivo tutte le parole, non sapevo trascriverle, mi spazientivo. Però la mattina seguente, in classe, ai miei studenti tedeschi che non capivano le canzoni italiane dicevo che non è importante capire tutte le parole. Non è importante. Quando ascoltavo la serenata a dispetto ridevo nei momenti giusti, poteva bastare. Dopo, mi è sembrato che il dispetto fosse la nostra storia.

Pigneto, Magliana, Centocelle, San Lorenzo, Tor Pignattara, Monteverde, sono venuta a cercarti nelle case degli altri perché mi parlassero di te – Ah! I romani che il mondo è Roma; i romani che Roma negli ultimi anni si è imbarbarita; i romani che io al paese tuo ci vengo d’estate al mare; i romani che questo una volta era un quartiere popolare; i romani tutti artisti (al Pigneto un po’ di più); i romani delle milonghe; i romani che ho trent’anni, sono comunista, il lavoro in banca me l’ha trovato mio padre e la casa me l’ha comprata mia madre; i romani dei Parioli, i romani di Spinaceto, i romani con le buste della spesa seduti nella metro, quelli in piedi che si annusano la giacca prima di scendere a Barberini. I romani del GRA, lo scontento che trasudano di prima mattina (i più belli di tutti, siete). Ti ho preso a calci nel fetore dei tuoi bus, ho cercato ristoro nei tuoi parchi, ho abitato nella tua Quaresima, ho lavorato fra le tue Rovine, per te ho tradito parenti e amici (Ma quando torni? Non torno. Non hai paura a dormire sola di notte? No, ho paura a vivere in mezzo a tre milioni di persone di giorno).

Orrenda puttana malata. Così ti chiamo adesso, per residuo di intimità. Mezza giornata mi basta per guastarmi quando vengo a trovarti; due giorni ci metto a guarire quando torno a casa mia.
Ma sei bella, Roma, la tua bellezza è grande. Nun te sto a cojonà, mai potrei farlo: të sting’ pienn’ pë cculë.

***

[«Roma di Quaresima», «Roma delle Rovine», le ho rubate a Tommaso Giagni, che è romano e di Roma ne sa da romano: «… e tutto sta nell’essere figlio di questa o quella. Certe strade non sono altro che mura. Poi ci sono io, figlio di entrambe e di nessuna – il che è esattamente lo stesso. Io sono estraneo: sono tutto e sono niente» – Tommaso Giagni, L’estraneo, Einaudi 2012]

Fare le prove

Distribuisco a caso sul tavolo quello che capita: un posacenere colmo, accendini, un mazzo di chiavi, un cellulare, tre telecomandi, una manciata di penne e matite sparse, un paio di libri, due bicchieri e una tazzina vuoti. Stringo il pugno destro e inizio a calarlo sul tavolo, una, due, tre, quattro volte, variando la forza del colpo e la posizione della mano. Provo anche con la sinistra, ma non viene bene perché non sono mancina. Prendo appunti a ogni verifica, e ricomincio. La posizione, soprattutto, è importante: lavorare di nocche non è la stessa cosa che usare il lato esterno del pugno, tra polso e mignolo. Colpo ossuto e colpo carnoso producono suoni differenti, sonoro il primo, sordo il secondo, come una “b” (battere, botta, bastonare) e una “p” (picchiare, pugno, pestare).

– Oh, ma che ti sei ammattita? – mi chiede.
– No. Sì. Non lo so. Può essere. Sto facendo le prove.
– Prove di che?
– Prove di pugno sul tavolo. Ho bisogno di studiare il suono e il movimento degli oggetti che ci stanno sopra.
– Perché?
– Per scriverlo.
– E mi devi rovinare il tavolo per scriverlo?
– Sì.
– Sarebbe questo, scrivere? Io pensavo che uno si siede e si inventa una storia, non che si mette a spaccare le cose.
– Non le spacco, le uso. Mi lasci lavorare, per favore?
– Lavorare? Qualcuno ti paga per prendermi a cazzotti il tavolo buono della sala?

Adesso il pugno è sincero, decisivo, irrimediabile. M’è partito di lato, colpo carnoso. Mi faccio anche un po’ male. Perché la frase, la sua frase, ha colpito il centro esatto di un dolore muto, l’introvabile punto G della disperazione.
Prendere nota subito: per scrivere di un pugno vero, affondarsi le mani nella pancia, strapparsi dalle viscere una furia vera, scagliarla sul tavolo. Cercare rogne, sì, adesso ho proprio voglia di litigare, prendere a schiaffi qualcuno, perdio quanto sono incazzata.
Gli oggetti, poi: posacenere e accendini rimbalzano (“sobbalzano”); tre mozziconi di sigaretta saltano (“volano”) per aria, in un pulviscolo di cenere; bicchieri e tazzine cosa fanno? (“tintinnano” no, per carità, via subito; “trillano”, forse;  “tremano”, “vibrano”, “scampanellano”, “si crepano”); chiavi, cellulare, telecomandi, penne, matite, libri: è tutta una zuffa confusa di armi e moventi, questo è il giorno in cui i due personaggi provano ad ammazzarsi.

– No, non mi paga nessuno. Però tu mi hai appena aiutato a scrivere una pagina.
– Mi fa piacere. Mò rimetti a posto, e le altre prove te le vai a fare da un’altra parte.

C’è questo fatto un poco scomodo, nei rapporti tra chi prova a scrivere e chi no: chi no non comprende le attività di chi prova a scrivere, chi prova a scrivere non ha pietà di chi no. Però chi no offre quotidianamente materiali preziosi da saccheggiare, sbranare, spolpare, spremere, stuprare, dissanguare. Molta vita e poca scuola. Esercizio, ci vuole.
E tu sei vampiro della vita tua e di quella degli altri (i più finiscono col detestarti, ma questo non è un serio problema). Mi confermo una vecchia ipotesi che mi è ancora cara: scrivere è un cazzotto in bocca. Oggi sul tavolo.
Poi non lo so se funziona davvero così. Ma intanto una pagina è quasi fatta (duemila battute). Domani provo quella dello schiaffo.

Appunti per un inventario delle perdite (A-Tisket, A-Tasket)

Questo è mio, questo è tuo. Non all’inizio, lo sappiamo (tu, io, tutti quanti), ma non ci stanchiamo, non ci stanchiamo mai di raccontarci la storia daccapo, un’altra volta, un’altra volta. All’inizio, ti dicevo: scompiglio liquido, frullo di stomaco, una nebbia necessaria, travaso di fluidi, e coi fluidi vengono pure gli oggetti. Ecco gli oggetti, segni palpabili di familiarità. Su, scompaginiamoci un po’, cointestiamoci questo amore normale: ti affido le mie cose, mi affidi le tue cose. Guarda come sorridiamo in quella foto attaccata al frigorifero, come stiamo bene in questa domenica mattina impastata di sonno e di sudore, come siamo quieti in mezzo alle cose nostre, metti a fare un caffè, alla radio dicono che oggi sarà tutto sole, si potrebbe andare al roseto comunale.

Sì, però. È onerosa la manutenzione degli affetti, guarda come s’incista nelle minuzie del quotidiano. Può capitare di domenica mattina, ma pure un martedì sul treno delle 7:58. Cominciamo a fare come due compagni di scuola alle elementari, quando litigano e separano i loro banchi, allestiscono una muraglia provvisoria e con la mano tracciano la linea di confine, questo è mio, questo è tuo, qua ci sto io, qua ci stai tu, capito?

La negoziazione finale, quando è il momento, ha le sue complicanze: che ne facciamo, adesso, di questa lanterna a manovella da tre watt? E questo libro, di chi è? Lascia lì ché poi ci pensiamo. Un disaccordo, un trasloco rabbioso, una fuga sragionata, una dimenticanza, certe prevedibili trascuratezze in mezzo al parapiglia, tra i fiaccanti chiacchiericci del distacco. Le cose si ritrovano mesi, anni dopo, o non si ritrovano più.
Si potrebbe, allora, cedere alla malinconia – trovare una lingua per dirlo, coprircisi come con una coperta.
Ma compilare elenchi, invece, aggiornarli a ogni congedo, di sottrazione in sottrazione, preferendo alla cupezza il gusto per gli inventari: che te ne pare, di questo stratagemma? Con buona memoria, si potranno catalogare gli sprechi adottando il criterio cronologico della scomparsa. Bisognerà cominciare, prima o poi. Lo chiameremo: Inventario delle perdite.

Per esempio, dov’è quella canzone che non ho più? (ce l’hai tu). La rivoglio, quella mia, nel punto esatto in cui il disco col tempo si è sciupato, lì dove lei dice

I dropped it, I dropped it
Yes, on the way I dropped it

Maledetto il primo libro

– Non li ho più contati ma, se proprio volessi fare lo sforzo di memoria che mi chiedi, e lo voglio fare perché un po’ te lo devo, i traslochi dovrebbero essere stati in tutto nove. Dal 2000 a oggi: nove, sì.
Ripeto il conto ad alta voce insieme a lui, con le dita: anno e città, lui va integrando via via i dati aggiungendo pure gli indirizzi (come fa, come fa a ricordarsi tutti i miei indirizzi?). Salto un paio di soggiorni brevi, poca cosa. Ma lui mi interrompe subito.
– Poca cosa un cazzo. Non importa se lì ci sei stata un mese o un anno, devi contare tutte le volte che hai riempito scatoloni, più quella volta quando sei tornata da Wolverhampton.
– Ma che c’entra quella? Non era mica un trasloco, ci sono stata tre mesi e avevo solo qualche bagaglio!
– Ci sei stata quattro mesi, dal 18 settembre al 18 gennaio. Avevi due valigie, uno zaino da campeggio più grande di te sulle spalle, e la borsa del computer. A Birmingham ti sei messa a piangere al check-in di Raynair per la tassa da pagare, questo me lo hai raccontato tu al telefono, ma secondo me non piangevi per la tassa, non solo. Quando si piange a quel modo, è trasloco.
– Va bene, allora sono undici.
– No. – solleva il bicchiere nella mia direzione, – Sono dodici. Salute! –  e manda giù trionfale un sorso di vino, – Non consideri l’ultimo, quello che ti ha riportato qua al punto di partenza? […]

Continua a leggere “Maledetto il primo libro” su Vicolo Cannery, 11/04/2014

(sempre bello, stare nel Vicolo)

Il dio Pan

Al centoquarantaduesimo scalino della Torre degli Asinelli, ho avuto il mio primo attacco di panico.
Questo, però, l’ho pensato un po’ di tempo dopo, mica lì mentre buttavo sudori. Quando sudi in quella maniera, non pensi.
Bisogna affrontare la faccenda con metodo, mi sono detta la sera stessa in albergo, seduta al centro del letto di una camera doppia uso singola arredata in toni blu. Venirne a capo: compilare elenchi, fare inventari, svolgere indagini, studiare archivi, prendere appunti. Esaminare minuziosamente il caso, dati alla mano. […]

Continua a leggere “Il dio Pan” su Abbiamo le Prove, 28/03/2014

(il mio ringraziamento a Violetta Bellocchio, sempre)

Io voglio mangiare

Facci caso. Tua madre, quando guarda un film, vuole una storia, una storia comprensibile e verosimile, con un ritmo né troppo lento né troppo veloce. Guai se il finale non si capisce. La storia deve avere un capo e una coda, qua le cose devono essere chiare, ché già la vita è oscura. Lei, poi, preferisce le storie che finiscono bene, per lo stesso principio inevitabile dell’oscurità delle nostre esistenze.
L’altro giorno, dopo essere stata al cinema a vedere l’ultimo film di Ozpetek, le hai consigliato di andare a vederlo, che forse quello le poteva piacere.
– La storia si capisce bene.
– Eh, sarà uno di quei film noiosi che piacciono a te.
– No, non è uno di quei film noiosi che piacciono a me, giuro.
– Di che parla?
– Parla dell’amore tra una ragazza e un ragazzo.
– Finisce bene o finisce male?
– Ma che te ne importa come finisce?
– Mi importa eccome. Avanti: finisce bene o male?
– Mah… non saprei dirtelo, c’è del bene, c’è del male.
– Sempre le risposte tue. Muore qualcuno sì o no?
– Sì, muore qualcuno. Ma mica succede solo questo, la gente muore sempre.
– Ma fa più piangere o più ridere?
– Suppongo più piangere, comunque ognuno al cinema piange per le ragioni sue.
– E io perché dovrei andare a piangere al cinema quando posso piangere per le ragioni mie qua a casa, gratis?
Donna sempre coerente, è stata disposta a pagare un biglietto solo per andare a vedere l’ultimo di Verdone, perché con lui si ride sicuro e, anche se qui e là c’è un po’ di amaro, alla fine si aggiusta tutto. Gli altri film se li guarda sempre a casa, su Sky, così può cambiare subito canale se si corre il rischio di piangere o, peggio ancora, di annoiarsi.
Hai tentato un approccio a La grande bellezza, quando lo hanno dato in televisione. Questo te lo devi proprio vedere, le hai detto. Lei si fida sempre di te anche se sa che ti piacciono spesso i film noiosi, è straordinaria la cieca mansuetudine con cui ti si affida, oggi che non è più giovane e le vostre stature si sono invertite. Nemmeno mezz’ora dopo l’inizio del film ha urlato:
– Ma che mi rappresenta ‘sta storia qua?
Si è alzata dal divano e se n’è andata a letto con la Settimana Enigmistica sotto il braccio.
Le parole crociate senza schema sono quelle che le piacciono di più, ne risolve a decine con gli occhiali sul naso, né si fa spaventare dagli incroci obbligati sillabici, Ghilardi e Bartezzaghi la fanno dannare ma non prende sonno finché non ne viene a capo, per i rebus ci vogliono pochi minuti, le cornici concentriche giusto quando è stanca, il critto-incastro quando va in bagno, le parole crociate della copertina nemmeno le guarda ché quelle sono per i principianti (le lascia a te).
– Tutto ‘sto polverone intorno a La meravigliosa bellezza io non l’ho capito. – ti dice il giorno dopo mentre fate colazione.
Tu non riesci nemmeno a correggerle il titolo, non te la senti proprio, mangi biscotti. Gli sparuti, incostanti sprazzi di bellezza che emana tua madre, quando la mattina presto beve il caffè in cucina e con grazia semplice si sbarazza di uno dei film più discussi della storia del cinema, quasi fosse una ciocca di capelli finita sugli occhi: come si racconta, questa portentosa minuzia di un mattino in una casa qualunque?

Tua madre, di una storia, vuole un capo, una coda, e carne in mezzo. Ti racconta The Words.
– Quello con Geremì Àironz. Questo te lo devi proprio vedere! Allora: è la storia di uno scrittore che non riesce a diventare famoso perché nessuno gli pubblica il suo libro, e lui s’avvilisce, pover’uomo, la moglie gli sta vicino ma lui niente da fare, è sconfortato, poi un giorno trova un manoscritto dentro una valigetta, ma il resto non te lo racconto sennò che gusto c’è se sai già tutta la storia.
– Ma un film, o un libro, non è mica solo la storia.
– E no! – ti interrompe subito lei con fermezza, – Non mi scocciare con le tue solite teorie!
Le tue solite teorie te le disegna in aria con uno sfarfallio confuso di mani, prima di concludere:
– La storia è la cosa più importante.
La storia è la cosa più importante, dice, ma l’altro giorno tu stavi guardando quel film di Resnais e lei passava di lì con lo straccio in mano. Si è fermata per un momento, ha guardato sì e no un minuto, in piedi vicino alla porta.
– Questo è un film francese, vero?
– Da cosa lo noti? – le hai chiesto senza nascondere una punta di fastidio.
– I film francesi si riconoscono subito.
– Ah sì, e da che cosa? – Volevi metterla alla prova, ormai più indispettita che curiosa.
– Mah, da quei dialoghi fitti fitti, e poi quei silenzi interminabili, quell’umorismo che capiscono solo loro, quei colori scuri, e tutte quelle inquadrature pallose.
Oh, come ti sei sentita la gola secca, mentre tua madre si allontanava riprendendo a spolverare mobili.
Lo vedi? Tua madre che vuole una storia, tua madre che non ha finito di leggere nemmeno uno dei romanzi pallosi che le hai regalato, tua madre che se La grande bellezza fosse stato un libro lo avrebbe scaraventato contro il muro dopo le prime tre pagine, fiuta un odore di film francese in meno di un minuto. Tu no, non sempre. Lei sì, sempre. Il suo occhio ineducato, scampato al danno irrimediabile degli studi e al vizio erosivo delle frequentazioni colte, si è addestrato da solo per anni, è il più attento di tutti, il solo che un autore dovrebbe veramente considerare.
Non sai spiegarti come succede. A volte ci provi, a spiegartelo. Prendi tuo zio Gianni, per esempio, anche se non sai che c’entra adesso la storia di tuo zio Gianni.

Faceva il cuoco in un ristorante di quelli raffinati, e anche lui era un cuoco raffinato perché da giovane, partito con lo stomaco che gli traboccava di pane e cipolla, aveva studiato in una scuola prestigiosa, viaggiato, conosciuto, osservato, annusato, assaggiato, toccato. Era finito a preparare quei piatti dai nomi lunghissimi che avevano sopra una forchettata di tagliolini fatti a mano, adagiati su un letto di non so che cosa, accompagnati con un’emulsione di qualcos’altro e spolverati con una granella di qualcos’altro ancora. Il risultato era indiscutibilmente bello da guardare, buono da degustare. I clienti abituali di quel ristorante lo apprezzavano tanto da essere disposti a pagare regolarmente cifre ragguardevoli. Poi un giorno si presentò nel locale un cliente nuovo, che ordinò questo piatto di tagliolini di cui gli era giunta notizia. Quando si trovò sul suo tavolo l’opera di zio Gianni, tagliolini, letto, emulsione, granella, rimase a guardarla in silenzio. Non toccò il piatto, non sollevò neppure le posate. Chiese di poter parlare con lo chef. Zio Gianni, con il garbo che gli avevano insegnato, si affrettò a uscire dalla cucina per capire il problema e informarsi sulle preferenze del cliente. Quello gli disse: io voglio mangiare. Zio Gianni allora tornò in cucina e gli preparò un’abbondante porzione di rigatoni annegati in un ragù di carne come lo facevano al paese suo, e gliela servì personalmente. Finito di mangiare, il cliente si volle complimentare con lui. Zio Gianni uscì di nuovo dalla cucina, si pulì le mani nel grembiule, lo ringraziò per i complimenti e poi gli suggerì di non tornare mai più in quel ristorante. Gli indicò una trattoria verso il mare. Se vuole satollarsi, – gli disse pure – là fanno i piatti come li vuole lei. Zio Gianni venne licenziato in capo a una settimana. Pover’uomo, disse tua madre.

– Stasera cucina tu, sono stanca. Fammi quella zuppa buona che hai mangiato a Parigi.
– Va bene. Ma guarda che è un piatto francese, eh.
– Che? ‘Na zuppa di cipolle? È un piatto semplice per chi tiene fame, e tu sei andata a pagarlo quindici euro in un ristorante di Parigi.
Piangi in cucina, ed è perché affetti cipolle. Prepari la soupe à l’oignon per te e tua madre, e pensi: dentro ci stanno brodo di bestia, bulbo di terra, crosta di pane.
– Dopo cena guardiamo un film? – ti chiede lei dal soggiorno. Senti un frusciare di fogli spaginati, giusto il tempo di una cornice concentrica da risolvere sulla Settimana Enigmistica prima di apparecchiare la tavola.
– Sì. Stasera lo scegli tu.
– Meno male! Pensavo che mi toccava rivedere quel film coreano dove lui e lei vanno in giro a mangiare e dormire e farsi la doccia nelle case disabitate, e poi lui prende a mazzate il marito di lei con una mazza da golf, e alla fine non si sa come diventa una specie di uomo invisibile, e continua a vivere con lei senza che nessuno lo vede più, e quella lì con una faccia da madonna sofferente non dice mai una parola per tutto il film. Ma che mi rappresenta ‘sta storia qua?