Roma, diavolo santo. Appunti per una serenata a dispetto

Io, quando ti vedo, incrocio per strada un amore finito. Vorrei sapere, non vorrei sapere; ti vengo incontro, faccio finta di niente. Mezza bocca sorride (un ricordo mi scola sempre dall’angolo destro), mezza me la spaccano gli incisivi.
Quando arrivo, puzzo di autobus. Durante il viaggio cerco sempre di non posare la testa sul cuscino, odora di capelli sporchi degli altri. Lungo la A24 mi addormento con la fronte schiacciata sul finestrino grasso di lordura. Così, quando arrivo da te, sono già infetta.

Faccio sempre così: una sigaretta, un caffè e un dolce alla stazione, un’altra sigaretta, due giornali e un giornaliero in edicola, ti fiuto mentre vado alla fermata della metro B. Tiburtina, cinque inverni di arrivi e partenze, di giorni sfigurati, ore sformate. Treno per Laurentina in arrivo tra due minuti, aspetto – una volta mi sono seduta ad aspettare sul piscio di qualcuno, me ne sono accorta alla fermata Policlinico. Ti ho aspettato ovunque, a tutte le ore. Sui tram, soprattutto (il 5, il 14), e mentre ti aspettavo mi stavi già di fronte, di qua, di là, alle spalle. Io, invece, cercavo la tua faccia bella.

Il sabato mattina, al mercato rionale davanti a Villa Gordiani, compravo l’orata, le patate, la frutta fresca. Studiavo la tua lingua e provavo a mettermela in bocca: «Aò, che me sta’ a cojonà?».
La sera, a Trastevere, andavo ad ascoltare quei tre musicisti che mi piacevano tanto. Cantavano le storie tue, raccontavano che nell’amore te po ddì bbene o te po ddì mmale (provavo a scriverlo, ma non era la lingua mia). A Roma s’è sempre cantato, sia ner primo che ner secondo caso. Certo, quanno tutto va bbene, vai sotto ‘e finestre de casa sua e je canti ‘na bbella serenata strappacore. Se te dice male, vai sempre sotto ‘e finestre de casa sua, ma je canti n’artro ggenere de serenata, che è la cosiddetta serenata a dispetto:

… si ddormi e ssogni, diavolo santo,
che nun te pozzi più risvejà.
Ma si stai svejo mentre te canto,
fa’ presto affàcciate, nun t’affaccià
cor paraparapò parapò parapò parapà.
E scapicòllate pe scegne ggiù,
fa’ presto affàcciate, nun venì ppiù,
si vvoi che canto, te fo cuccù
si (?), canto de ppiù.

Non capivo tutte le parole, non sapevo trascriverle, mi spazientivo. Però la mattina seguente, in classe, ai miei studenti tedeschi che non capivano le canzoni italiane dicevo che non è importante capire tutte le parole. Non è importante. Quando ascoltavo la serenata a dispetto ridevo nei momenti giusti, poteva bastare. Dopo, mi è sembrato che il dispetto fosse la nostra storia.

Pigneto, Magliana, Centocelle, San Lorenzo, Tor Pignattara, Monteverde, sono venuta a cercarti nelle case degli altri perché mi parlassero di te – Ah! I romani che il mondo è Roma; i romani che Roma negli ultimi anni si è imbarbarita; i romani che io al paese tuo ci vengo d’estate al mare; i romani che questo una volta era un quartiere popolare; i romani tutti artisti (al Pigneto un po’ di più); i romani delle milonghe; i romani che ho trent’anni, sono comunista, il lavoro in banca me l’ha trovato mio padre e la casa me l’ha comprata mia madre; i romani dei Parioli, i romani di Spinaceto, i romani con le buste della spesa seduti nella metro, quelli in piedi che si annusano la giacca prima di scendere a Barberini. I romani del GRA, lo scontento che trasudano di prima mattina (i più belli di tutti, siete). Ti ho preso a calci nel fetore dei tuoi bus, ho cercato ristoro nei tuoi parchi, ho abitato nella tua Quaresima, ho lavorato fra le tue Rovine, per te ho tradito parenti e amici (Ma quando torni? Non torno. Non hai paura a dormire sola di notte? No, ho paura a vivere in mezzo a tre milioni di persone di giorno).

Orrenda puttana malata. Così ti chiamo adesso, per residuo di intimità. Mezza giornata mi basta per guastarmi quando vengo a trovarti; due giorni ci metto a guarire quando torno a casa mia.
Ma sei bella, Roma, la tua bellezza è grande. Nun te sto a cojonà, mai potrei farlo: të sting’ pienn’ pë cculë.

***

[«Roma di Quaresima», «Roma delle Rovine», le ho rubate a Tommaso Giagni, che è romano e di Roma ne sa da romano: «… e tutto sta nell’essere figlio di questa o quella. Certe strade non sono altro che mura. Poi ci sono io, figlio di entrambe e di nessuna – il che è esattamente lo stesso. Io sono estraneo: sono tutto e sono niente» – Tommaso Giagni, L’estraneo, Einaudi 2012]